Dal punto di vista cronologico, probabilmente l’industria media è la prima ad essere stata messa alla prova dall’arrivo di Internet; nel processo di digitalizzazione, informazioni e contenuti sono i primi ad adeguarsi al passaggio epocale da atomi a bit.
Informazione e internet economy, dagli hacker a Bill Gates
Nel 1984, alla prima Hackers’ Conference, in Marin County, California, momento fondamentale nella storia della cyberculture, Stewart Brand, visionario fondatore di Whole Earth Catalog, tracciò la linea dell’informazione digitale: “Per un certo verso l’informazione vuole essere costosa, per via del suo valore così alto. La giusta informazione, nel posto giusto può cambiarti la vita. Allo stesso tempo, l’informazione vuole essere free, a libero utilizzo, perché il costo dell’accesso all’informazione sta diminuendo progressivamente. Così ci sono due forze in piena opposizione tra loro”.
In un articolo pubblicato sul suo blog nel gennaio 1996, dodici anni dopo, è stato invece Bill Gates a offrire una visione futura di come i contenuti sarebbero diventati il riferimento principale della vita e della Internet economy: “La qualità dei contenuti e la propensione degli utenti a pagare per essi saranno in grado di determinare il futuro di questa macchina affascinante chiamata Internet”.
Entrambe queste profezie strutturano la loro visione riconoscendo l’esistenza di una tensione costante tra scarsità ed abbondanza nel mondo digitale, a cavallo tra utilità percepita dei vari contenuti e la loro distribuzione.
Internet, nessuna industria può dirsi salva
In questi 25+ anni di vita di Internet sono poche le industrie che possono ritenersi indenni da grandi trasformazioni e quasi nessuna può considerarsi salva dalle prossime evoluzioni previste dalla potenza del digitale; quella Media ha un ruolo particolarmente significativo perché in posizione particolarmente esposta all’incontro con i vari cambiamenti anche paradigmatici della tecnologia.
via hbr
Social Media publishing, Freeconomics, L’inversione della creazione dell’influenza e Benjamin Button Economy sono tutti aspetti straordinari ed affascinanti che rientrano nella visione immaginata da Brand e Gates e che effettivamente documentano l’evoluzione e lo stato dell’Informazione e del digital content.
Aspetti critici e modelli di business discutibili
Lo scenario presenta però diversi aspetti critici. Se da una parte il mondo digitale vede crescere qualsiasi indice che documenta l’utilizzo di internet e la sua penetrazione:
• +7% aumento di utenti connessi
• +13% utenti attivi sui social
• +25% tasso crescita e-commerce a livello globale
dall’altra non si possono ignorare le conseguenze negative sull’economia tradizionale.
Già nel 2009 Google era stata oggetto di inchiesta da parte del Senato americano per essere considerato un distruttore dell’intera industria media e definito da vari esperti come Jim Spanfeller, CEO di Forbes, e Robert Thompson di Wall Street Journal come “una azienda basata su un modello di business parassita”.
In quella occasione venne scelta Marissa Mayer, Vice Presidente per il prodotto GoogleSearch, come persona più adatta a rappresentare l’azienda davanti alla commissione di Comunicazioni e Tecnologia. Una strategia che si rivelò vincente; la manager dichiarò candidamente come Google fosse di fatto “un servizio free di estremo valore per l’industria ed utile per generare revenue addizionali“. Nessuno la contraddisse.
Più recentemente, anche l’altro grande player, Facebook, utilizzò una strategia molto simile per rispondere alle varie accuse di non aver ostacolato l’intrusione di forze esterne e straniere durante la campagna elettorale americana, dando a Sheryl Sandberg, Chief Operating Officer dell’azienda, il compito di diffondere in messaggio per cui Facebook non è una media company: “Noi assumiamo ingeneri e non giornalisti”. Qualcuno espresse il suo disappunto.
Al netto di una strategia chiaramente basata sulla generazione di simpatia e creazione di diversivi da parte dei due colossi monopolisti per difendere le loro rendite di posizione, l’evidenza è evidentemente un’altra. Vediamo qualche numero.
Il monopolio di Google e Facebook nella pubblicità
Secondo eMarketer, infatti, i Big Two hanno raccolto insieme il 50% della pubblicità mondiale e più del 60% negli Stati Uniti. Nel mercato americano non ci sono altre piattaforme digitali con posizioni sopra il 5%.
via emstatic
La classifica annuale redatta da Livres Hebdo/Publishers Weekly chiamata “The World’s 54 Largest Publishers, 2017” racconta un quadro desolante per le principali case editrici al mondo: quasi tutte vedono diminuire il giro d’affari.
Pearson, il primo publisher al mondo, segna una crollo del 15% di ricavi da vendite pari a 5.62 miliardi di dollari con conseguente riorganizzazione aziendale ed un riassestamento dell’organico a 4.000 impiegati in meno ed una ulteriore previsione di licenziamenti ulteriori per altri 3.000. Scendendo la classifica la situazione non è molto diversa: Houghton Mifflin Harcourt, la 14esima per fatturato, perde il 3% in revenue con relativo annuncio del taglio tra l’8% e il 10% della forza lavoro nell’anno in corso.
La coraggiosa inversione di tendenza dell’editoria
Negli ultimi mesi, infatti, stiamo assistendo ad un interessante inversione di tendenza da parte di alcuni illuminati publishers; guidati dalla necessità di riorganizzarsi verso fonti di ricavo alternative, questi hanno iniziato a valutare nuovi modelli di business rispetto a quanto deciso per il canale digitale: ciò prevede l’allontanarsi progressivamente dalla pura remunerazione da vendita di spazi pubblicitari per andare alla ricerca di fonti di revenue dirette.
Stiamo infatti assistendo a coraggiose decisioni da parte di market leader quali New York Times, Boston Globe e Washington Post di ridurre il perimetro del loro paywall verso un numero minore di articoli disponibili gratuitamente.
Attività proposta, tra l’altro, anche da Harvard Business Review che è passata da un modello di cinque articoli disponibili gratuitamente ogni mese instaurato nel 2014 a tre nel 2017.
Venendo al caso del New York Times, assistiamo al passaggio da dieci a cinque articoli al mese; il primo cambio da cinque anni a questa parte, vero standard per i tempi digitali e la creazione di un abbonamento all inclusive al prezzo di $15 ogni quattro settimane.
Un coraggioso cambio di tendenza guidato da una riflessione su alcuni elementi principali:
- una progressiva e crescente perdita di incidenza dei ricavi da pubblicità provocati dall’evoluzione del ad-blocking, oramai standard proposto su sistemi operativi mobile (vedi iOS 11) oltre che su browser;
- la volgarizzazione della free information strutturata secondo metriche di puro traffico amplificate da fenomeni di distribuzione tramite Social Media;
- l‘accelerazione del fenomeno Fake News, dell’impatto di questo fenomeno nella sua efficacia in termini di distribuzione ;
- le recenti evoluzioni dello scenario politico a livello mondiale e la relazione tra queste ed una certa qualità dell’informazione, soprattutto distribuita tramite Social Media, quindi libera da controlli ed oggetto di varie controversie;
- la scelta quindi di concentrarsi sul principale asset dell’azienda, ovvero il Brand e la sua reputazione come produttore di giornalismo di qualità.
Le conseguenze
Le prime conseguenze di questa scelta coraggiosa sono sotto gli occhi di tutti:
- aumento di Stock Price di +41% a gennaio 2018 rispetto all’anno precedente
- aumento dei clienti abbonati al modello digital only che ha raggiunto i 2,5 milioni (+45%) di users
- crescita dei ricavi totali a 1,68 miliardi di dollari rispetto ai 1.56 miliardi di dollari dell’anno precedente
- aumento delle revenue da subscription che hanno superato il miliardo di dollari compensando una partita significativa dei ricavi da pubblicità.
E’ evidente in questo caso che i consumatori cerchino e valorizzino una informazione fact-based nonostante uno scenario difficile ed una diffusa mancanza di fiducia.
Avere risultati in questo contesto è quindi ancora più importante.
Aveva ragione Bill Gates,”Content is King“, ma solo se di qualità.
L’articolo Crisi dell’editoria, la risposta nei nuovi modelli digitali proviene da Agenda Digitale.